Cultura: la grande assente dalla campagna elettorale, a parte le sponsorizzazioni
UMBERTO CROPPI SU HUFFINGTON POST
Non è solo questione di risorse, anche se non si può prescindere da queste: gli investimenti dello Stato e degli enti locali nel nostro Paese hanno livelli ridicoli non solo rispetto a solide e grandi nazioni ma anche ai nuovi stati che si affacciano sulla scena europea. In casa nostra abbiamo aggravato la situazione con una serie di provvedimenti legislativi che, a partire dal 2010, hanno progressivamente ridotto autonomia, capacità di programmazione e perfino di fund raising da parte delle strutture preposte alla promozione e alla produzione della cultura.
Il mantra che si sente più spesso recitare è quello della redditività, degli investimenti privati, delle sponsorizzazioni. Come se la crescita culturale del Paese, la manutenzione del patrimonio, la promozione delle arti non fossero un servizio pubblico necessario (e fonte di indotto economico) ma una eventualità subordinata all’interesse di investitori privati.
L’idea che la pubblica amministrazione potesse avvalersi di strumenti quali la sponsorizzazione era del tutto assente fino a venti anni fa e si è andata sviluppando tra equivoci, illusioni, limiti normativi e fiscali.
Ora va detto che almeno in questo settore specifico una piccola eredità il governo Monti la lascia. Si tratta un voluminoso documento elaborato dal capo del legislativo del Mibac, Paolo Carpentieri, e firmato dal ministro Ornaghi, che recepisce e dettaglia le disposizioni contenute nel decreto semplificazione e le coordina con il codice dei beni culturali.
La speranza è proprio che un documento di cinquanta pagine, indirizzato a tutte le soprintendenze e gli enti che hanno in gestione beni culturali, aiuti ad orientarsi e non produca invece l’effetto contrario.
Non ho letto il testo e so che il suo estensore è persona capace e attenta a questi problemi, tuttavia la prima notizia che se ne ha è relativa al fatto che ogni tipo di intervento che superi la soglia dei 40.000 euro dovrà essere “accettato” attraverso un procedimento di evidenza pubblica: detto in altre parole, se io voglio compiere una sponsorizzazione di 41.000 euro o più debbo passare attraverso una gara.
Tanta prudenza mi lascia ritenere che la nuova regolamentazione della materia (in sé quantomai opportuna) rischi di recepire e normare la confusione piuttosto che dissiparla; ripeto è solo una sensazione e spero di essere smentito dalla lettura del testo, una volta che sarà pubblicato.
Infatti fino ad ora si è spesso confusa la sponsorship con altre diverse fattispecie, dalla pubblicità di cantiere alle concessioni dalla pura filantropia ad attività di pubbliche relazioni mascherate.
Quella di sponsorizzazione non è altro che un’attività, regolata da un contratto di natura civilistica, in base al quale un soggetto conferisce denaro o servizi ad un altro (privato o pubblico) in cambio di comunicazione. E la comunicazione non consiste soltanto nel mettere il proprio marchio in fondo ad un cartello o apporre una targa ricordo, questa si realizza nel pubblicizzare il fatto che si è contribuito ad un determinato evento. L’esempio più classico è quello del fornitore di un bene per un evento sportivo a cui viene concesso l’uso del logo dell’evento stesso per le proprie campagne di comunicazione: l’esatto contrario di quanto avviene nelle cosiddette sponsorizzazioni culturali.
Tutto questo determina l’istaurarsi di rapporti atipici con aziende abituate ad agire in base a regole di mercato, incomprensioni e disincentivazione degli investimenti. Non è dunque soltanto una regolazione di rapporti giuridici, al fondo c’è una filosofia di approccio che va cambiata per mettere la pubblica amministrazione sulla stessa lunghezza d’onda dei potenziali investitori.
Il tutto, comunque, senza dimenticare che c’è un dovere primario dello Stato che può essere corroborato dai privati, in base a loro legittimi interessi, ma non da questi surrogato.