La fine del dopoguerra
UMBERTO CROPPI SU HUFFINGTON POST
Non aveva capito chi, nei mesi scorsi, si è fatto folgorare dalla fisiognomica di personaggi che si sono offerti alla gogna mediatica per l’uso disinvolto del denaro pubblico. Non aveva capito chi si è soffermato sulla volgarità dei festini in maschera e dei vassoi di ostriche; non aveva capito chi pensava che i suv e le vacanze pagate dai contribuenti fossero l’eccesso di qualche parvenu. Non aveva capito.
Non aveva capito la portata dell’uragano che stava per abbattersi sul gracile sistema delle istituzioni della Repubblica.
Perché di questo si tratta, la concatenazione di eventi che ha portato ad una delle crisi più virulente della politica italiana, comprese le dimissioni di due presidenti di regione, ha potuto produrre il suo repentino e devastante risultato solo in quanto sono molti gli elementi “di crisi” che le preesistevano. La crisi economica, ovviamente, che ha reso più stridenti i contrasti, ma prima ancora il progressivo degrado della classe dirigente, l’insipienza degli epigoni dei partiti che, con mutate spoglie, fanno risalire la propria origine al dopoguerra.
Se il ventennio alle nostre spalle aveva sgretolato leadership, sigle, strutture, restava ancora un collante che ne teneva unite le briciole, conferendo loro un’illusione di consistenza. Il collante era quell’insieme di regole non scritte, fatto di furberie, complicità, benefici, omertà: erano le regole su cui, nel male ma addirittura nel bene, si è andata costruendo la Repubblica, si è consolidato lo Stato nelle sue articolazioni.
Se tesorieri infedeli hanno rubato, hanno rubato ai loro sodali, hanno potuto farlo perché disponevano di risorse straordinariamente eccedenti alle esigenze per cui erano state attribuite; i consiglieri della regione Lazio, Lombardia, Piemonte, Liguria (come probabilmente tutti i loro colleghi di ogni ordine e grado) non hanno neanche creduto di rubare e invocano, temo a ragione, una condizione di ingenua innocenza.
La domanda che aleggia, il sospetto che circola: sono dunque tutti uguali? No certo, ma tutti si muovono dentro queste regole, ne sono attuatori e custodi. Vincere o perdere, nel lessico della politica italiana, non significa più affermare una visione rispetto ad un’altra ma occupare il luogo simbolico del potere.
Non aveva capito, dunque, chi aveva la responsabilità di porre mano a una profonda autoriforma del sistema, quanto eravamo avanti in questa crisi, che non è la crisi della transitoria configurazione di forme istituzionali modellate su un sostanziale consociativismo, ma è il collasso di un sistema di rappresentanza che ha finito per confondere la funzione di governo con la conservazione di chi quella funzione svolge. Un collasso già evidente nello stallo che aveva spianato la strada all’eccezione: il governo dei tecnici.
Ben oltre il banale e poco veritiero computo delle “repubbliche” (la prima, la seconda, la terza) il trauma di questo risultato elettorale ha finalmente chiuso il nostro interminabile dopoguerra. Fra poco, si spera, bisognerà cominciare a ricostruire.