Le primarie fanno male al Pd. E al ricambio.
UMBERTO CROPPI SU HUFFINGTON POST
Non so se qualcuno nel Pd si stia chiedendo se le primarie abbiano centrato lo scopo per cui erano state concepite, abbiano davvero giovato a chi le ha usate e, soprattutto, se siano veramente primarie. Le uniche primarie vere sono quelle che si svolgono negli Usa, aperte all’intera base elettorale e regolate dalla legge. Quelle a cui è stato attribuito tale nome in Italia nacquero per consacrare un candidato premier, poi usate come surrogato dei congressi per eleggere la classe dirigente, ancora (a volte sì a volte no) per scegliere il candidato governatore o sindaco, di nuovo per il premier, infine per selezionare una parte dei candidati a camera e senato. Con regole e modalità che cambiano di volta in volta, a seconda delle esigenze e con correttivi plasmati sulle sviste delle esperienze precedenti.
Con quale risultato? I vincitori delle primarie del Pd, o della coalizione ad esso aggregata, hanno poi vinto le elezioni solo nei rari casi in cui questo passaggio di legittimazione ha stravolto i pronostici, ha spiazzato gli apparati: la vittoria è stata frutto dell’effetto sorpresa. E’ così in ogni singolo caso: in Puglia passò Vendola, su cui nessuno avrebbe scommesso un centesimo, e si aggiudicò la presidenza, a Genova Doria, l’outsider dell’ultimo momento, a Milano Pisapia.
Quando il partito è riuscito a mantenere il controllo, i candidati selezionati con questo metodo hanno perso, e non solo nei comuni. A Palermo Orlando ha disconosciuto il risultato delle primarie del cartello in cui si riconosceva e ha stravinto; de Magistris a Napoli non si è neppure posto il problema e con un 26 percento al primo turno (appena il 16 dei partiti che lo sostenevano) ha trionfato col 61%.
In Lombardia la candidatura di Ambrosoli rappresentava la vera novità, nata sotto la spinta di una qualificata forza civica, con il semplice appoggio del Pd probabilmente avrebbe dispiegato tutto il suo valore innovativo; invece il democratici hanno voluto metterci sopra un sigillo, costringendo il candidato a passare sotto il vaglio delle primarie, depotenziandolo così fino a farlo perdere.
Il caso ovviamente più eclatante è quello dell’indicazione del premier: un imponente impiego di energie per dimostrare la forza del partito e far vincere Bersani su Renzi, avviando così il segretario del partito alla sostanziale sconfitta elettorale. In controtendenza soltanto i neopresidenti delle regioni Sicilia e Lazio e, Crocetta e Zingaretti, che infatti sono stati candidati senza primarie.
E’ forse arrivato il momento in cui qualcuno nel Partito Democratico una riflessione sul significato di questo istituto sbilenco cominci pure a farla. Oltre la favola della consultazione di cittadini, su basi virtuali, che cambiano a seconda delle occasionali regole, lo strumento è comunque soggetto a logiche di apparato, di truppe cammellate, di controlli da parte delle nomenclature.
L’abbaglio sta nel confondere l’eco propagandistica che le accompagna con un vero coinvolgimento, con una apertura alla società. La verità è che finisce per essere un sistema che chiude, restringe la possibilità di alleanze, limita l’inclusione di coloro a cui è riservato il diritto di scegliere davvero, ossia tutti gli elettori. La serie storica sopra analizzata è di un’evidenza difficilmente confutabile.
Non si può immaginare che possa continuare a convivere l’idea del primato del partito con una prassi che tende a eclissarla o, peggio, a camuffarla.